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Townstories

Stand:


IL RIO S’ADDE TRA MEMORIA E NOSTALGIA

Francesca Pinna

Ho cercato di scendere al Rio per guardare da vicino il luogo che mi è stato raccontato, guardarlo con i miei occhi e rivivere l’atmosfera di un tempo. Il fiume ha posto fra me e lui, una barriera impenetrabile di sterpi e rovi; gli antichi sentieri ostruiti o introvabili: il fiume mi ha respinto. Per decenni ho respirato l’aria che il Rio stesso respiravo e mi sono sentita in colpa per averlo ignorato in tutti questi anni e perché faccio parte della comunità che ne ha causato l’agonia…….

La vallata un tempo aveva una ricchissima vegetazione: vi cresceva l’alloro allo stato spontaneo e raggiungeva l’altezza di oltre tre metri,ma anche lentisco e olivastro, ferula e carlina - che favoriscono la crescita delle nostre antenne - , asfodelo e asparago, e la salsapariglia, chiamata s’aghina e sa colora (l’uva delle bisce), che in autunno si copre di bacche rosse. Lungo il corso d’acqua salici e tamerici, ranuncolo acquatico, iris gialli e orchidee dai colori smaglianti.

Le erbe commestibili erano abbondantissime; alcune si consumavano spesso dove si raccoglievano, altre si portavano via; se ne facevano infusi e decotti o si usavano per aromatizzare i cibi. Dell’ ardu minzone (allattalepre) si mangiava il fusto per bloccare la dissenteria. Il Mucu-mucu (borragine) si usava in cucina con fave e lardo, mentre i bambini ne succhiavano i calici dolci, la Borragine, veniva anche usata per tingere i tessuti di blu. Con l’ardu minzone (carciofo selvatico) si faceva un decotto per curare anemie e mal di pancia. La cicoria si mangiava come insalata e se ne facevano impacchi per le emorroidi.
I finocchietti selvatici si cucinavano con piatti di carne e con fave e lardo; si faceva anche una zuppa, con pane raffermo e formaggio fresco. Il decotto della chessa (lentisco) curava i dolori nevralgici, quello della pramuzza, (malva) aveva diverse proprietà, alleviava i dolori mestruali, il mal di stomaco, le cistiti e la dissenteria. S’ortiga (ortica) era ottima per il mal di pancia, su titione ( salsapariglia) si usava contro la febbre. Su lavru (l’alloro) in decotto era un ottimo digestivo; le foglie, fresche o essiccate, aromatizzavano arrosti e sughi.
Le donne scendevano al Rio per lavare, portando il fagotto dei panni e l’occorrente per fare la lisciva: la bagnarola, il treppiede e la cenere. Il fuoco si accendeva con rami e sterpi.
I panni trattati con acqua calda e cenere venivano messi ad asciugare sui cespugli di lentisco e cisto; erano immacolati. Artigiane esperte si avvicendavano in vari lavori lungo le rive del Rio: sas cattigheras, per fallare il lino, sas traccheras per fallare l’orbace e sas samunadoras (lavandaie).

Il lavoro delle donne, chine sulle pietre levigate era alleviato dallo stare insieme, vicine, scambiandosi confidenze e cantando. Nonostante la fatica, la giornata trascorreva serena e gioiosa: si mangiava pane e formaggio, ma a volte si riusciva a catturare qualche pesce e si arrostiva sulla brace. Mentre il sole asciugava i panni si raccontavano storie ai bambini, ormai stanchi di inseguire le libellule con il corpo allungato e le ali trasparenti. Generazioni di giovani macomeresi imparavano a nuotare al poggio Mariani, dove il fiume si allargava e l’acqua era più profonda. Era là che trascorrevano le calde serate d’estate quando il trenino a vapore impiegava due ore per percorrere ventisette chilometri!
Fino a dieci anni fa, erano ancora visibili le mura dell’ultimo mulino, abbattute per far posto ad una vigna, nell’indifferenza di tutti. E’ l’ultimo gesto d’insensibilita’ verso il territorio, un pezzetto della nostra storia che sfuma.
E’ sempre vivo nei macomeresi il ricordo dei miasmi che si levavano dal fiume, quando i numerosi caseifici e il lanificio Alas scaricavano i rifiuti non trattati delle loro lavorazioni. I pesci scomparvero, mentre tutto quanto cresceva sulle sue sponde marciva avvelenato.

Sono passati cinquanta anni circa da allora; nel frattempo le industrie si sono spostate nella zona industriale, molte non esistono più. Il fiume ha smaltito quei veleni, i pesci sono tornati, ma il ricordo di quella ferita rimane incancellabile.
Alla fine di questo breve percorso tra storia e memoria, sento che l’ostilità è finita: il rio aspetta il mio ritorno. In questi giorni di cielo grigio, quasi una penombra propizia alla nostalgia, immagino di sentire il gorgoglìo dell’acqua: il Rio che canta, nella pace della valle, scivolando leggero sui suoi ciottoli bianchi, superbo e libero.