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Townstories

Stand:


Rio s’Adde, Il torrente della valle

Pietrina Bosu

Quando ci fu comunicato il tema intorno a cui i gruppi lavoravano, in preparazione al viaggio a Praga, sui nostri visi si diffuse un’aria perplessa perché noi non abbiamo un grande fiume che possa reggere il confronto con il Danubio e la Moldava. Noi abbiamo solo il Rio s’Adde, un rio, appunto, non un fiume.

Per un attimo abbiamo pensato di toglierci dai guai, scrivendo sul Temo, che è il fiume di Bosa - città verso la quale ci sentiamo attratti, ma con la quale abbiamo anche qualche rivalità – che non è lungo come il Danubio, ma è in parte navigabile, e che ha in comune con la Moldava una certa tendenza alle inondazioni…
Ma l’orgoglio ha prevalso e abbiamo deciso di far diventare protagonista il nostro fium…icciatolo.

Rio s’Adde non è neanche un nome proprio, significa “il torrente della valle” e scorre infatti in una valle, che nel toponimo sembra la valle per eccellenza, la più importante, se non l’unica, incassata tra due pendii ripidi che la fanno somigliare a un canyon. Questo canyon ha avuto tuttavia la sua importanza, durante la preistoria, quando rappresentava l’unico passaggio che permetteva di risalire dalla pianura sull’altopiano di Campeda e di superare quindi la Catena del Marghine, che allora rappresentava proprio un margine, un confine, un limite.


Lungo questa valle i nostri antenati risalivano verso Nord e sostavano a rinfrancarsi e forse a pregare, in un riparo sottoroccia, dove nel 1949 venne ritrovata una statuina in pietra arenaria, nota come Veneretta di Macomer che, con le sue linee morbide e i fianchi abbondanti, rappresenta la Dea Madre mediterranea. Ha un solo seno, il sinistro, e una testa piccola, a muso di lepre. Era un simbolo di fecondità e fertilità, e insieme un primo tentativo di dare forma a un’idea di divinità ancora confusa .

Quella grotta, e le altre decine di caverne e ripari sottoroccia, rappresentano le prime tracce di insediamento umano nella zona.
Circa diecimila anni fa, la Dea Madre vegliava dunque dalla grotta sul fiume, sulla valle e sui traffici che la animavano. Una serie di oggetti di pietra, d’osso, di terracotta, e altri due piccoli abbozzi di statuette in basalto, ritrovati accanto ad essa, fanno pensare a una specie di laboratorio, un’officina dove artisti maghi e forse sacerdoti lavoravano la pietra e traevano da essa simboli per propiziare la caccia e invocare la protezione della divinità.

Questi ritrovamenti ci sembravano sufficienti a testimoniare la dignità storica del nostro Rio.

Andiamo a vederlo? Ci diamo appuntamento davanti all’ALAS (ex lanificio) in un pomeriggio arroventato e ci avventuriamo in una discesa che ci conduce al bordo del canyon. Quando arriviamo sul ciglio del burrone, non troviamo una via per scendere.
Del fiume nessuna traccia visiva, se non per qualche cespuglio verde sul fondo della valle che si presenta arsa. Si intravedono viottoli a mezza costa, ma nessun sentiero per arrivare fino ad essi.

Aggiriamo una rupe e ci affacciamo nello strapiombo; la stradina a mezza costa e là, sotto di noi, a due-tre metri di dislivello, ma noi non possiamo arrivarci. Il fiume sembra respingerci, sembra aver rotto ogni rapporto con la città, fatta eccezione per quei pochi che ancora coltivano orti sulle sue rive, a debita distanza certo, e sanno come prenderlo.


Lungo poco più di 10 chilometri, come tutti i torrenti è per sua natura capriccioso, perfino nel tracciato irregolare e tortuoso che, partendo dalle numerose sorgenti che lo alimentano, situate intorno al piccolo comune di Mulargia, si incide nella valle fino all’uscita in pianura. Sarà, ma forse ce l’ha con noi per il degrado a cui lo abbiamo condannato: gli scarichi dei caseifici e del lanificio hanno avvelenato per decenni le sue acque; lungo i pendii della sua valle non mancano discariche abusive.

La vegetazione è costituita da pochi arbusti spinosi che crescono disordinatamente, da euforbie (piante da cui i primi abitanti della zona traevano un lattice nel quale intingevano le punte di freccia per tramortire le prede), asfodeli e macchie di tapsia. Più in alto si nota qualche albero di sambuco, di alloro, qualche fico e qualche pruno. Le coltivazioni a terrazza, che un tempo erano simbolo dell’amicizia tra l’uomo e il fiume sono scomparse. Alcune terrazze, non più coltivate, sono franate. I muretti in pietra disegnano il reticolo delle proprietà che oggi sono per lo più incolte e abbandonate.

Oggi il rio non è altro che una serie di pozze, ai cui lati crescono esemplari di tifa, che si alternano a tratti interamente ricoperti di grossi sassi. D’inverno, però, il rio si ricorda di essere un fiume; ha le sue cascatelle, le sue rapide; le sue acque hanno la forza per levigare i sassi e le rocce che affiorano sul greto; se le piogge sono abbondanti può uscire dal suo alveo e provocare temporanee inondazioni….