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Townstories

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Il mio piccolo mondo

di Francesca Pinna

I luoghi quotidiani sono spesso avvolti dal velo dell'abitudine che li ende opachi, cammino senza dare un senso a ciò che mi circonda, sono presente e assente allo stesso tempo mentre la mente si perde vagando sullo schermo dei sogni.
A volte compaiono isole lontane che non ho mai visto, ripercorro città che mi sono rimaste nel cuore o sento il profumo di fiori sbocciati in primavere perdute. Basta un raggio di sole improvviso che scaccia nuvole invadenti o un soffio di vento mi riporta una melodia nostalgica o è il ritorno a casa dopo una breve assenza: il cuore si risveglia.
L'emozione trabocca come un ruscello in piena, è un vedere e un sentire al di fuori del tempo e dello spazio, nel risveglio del cuore affiorano versi sopiti:

mi riconobbero e ben torni ormai,
bisbigliaron ver me col capo chino…

Nella via che conduce alla mia casa c'è una fila di alberi, sono allineati sul marciapiede di fronte alle abitazioni, al centro il rettilineo grigio d'asfalto è una lavagna dove leggo tutte le tappe della mia esistenza. Sono cresciuta in questa strada e la strada è cresciuta con me: era un cumulo di rocce che si sono sgretolate sotto il rumore sordo delle mine.
Ho visto gli uomini che l' hanno costruita, ho sentito l'odore della loro fatica, conosco i sassi che vi giacciono in fondo, sono gli stessi con i quali giocavo a furriolu. Ho seguito tutte le fasi dei lavori e mentre la strada prendeva forma, io crescevo e diventavo donna.

Oltre gli alberi c'è un giardino: nella mia infanzia era un prato. In primavera c'era un'esplosione di colori che raccoglievo per farne ghirlande e orecchini.
Ora il prato non c'è più, ci sono gli alberi piantati una grigia mattina di Novembre, una di quelle fredde giornate che preludono un inverno precoce. C'è una bambina che guarda: dal corto cappotto rosso spunta il grembiule bianco, le sue ginocchia scoperte sono livide di freddo, è in una fila ordinata di una scolaresca; era la festa degli alberi.
Quella bambina ero io, guardavo alla mia casa e al prato, ai buchi neri che aspettavano di essere riempiti, felice protagonista di un evento straordinario. Il giardino è stato recintato, la proibizione di tuffarmi in quel mare verde, tra i teneri alberi fu un dolore cocente.
Gli alberi sono cresciuti, i fiori mai più ma accade a volte che la brezza impertinente dei ricordi mi riporti la loro fragranza e ritorno all'infanzia, sono li, nel prato, ad inseguire lucertole verdi e scavare con un ramo le tele dei ragni.
Nell'aria cristallina di Maggio, fioriva la ginestra, un mare dorato dove si giocava a nascondino: era alta più di me. Quando la stanchezza aveva il sopravvento, esausta, guardavo sdraiata le piccole striature bianche su in alto: scie di sogni in barchette diafane. A Giugno la ginestra restituiva al cielo la sua linfa, ne facevamo fasci che bruciavamo la notte di San Giovanni. Saltavamo i falò tenendoci per mano sfidando il vortice delle scintille che ci accarezzava i capelli. Nell'odore acre del fumo mangiavamo il pane fritto, croccante, che le mamme portavano, intorno al fuoco, dove la comunità si stringeva a celebrare un rito millenario.

Oltre il giardino ci sono i binari che u n tempo tracciavano il confine del centro abitato. Io abitavo oltre il centro abitato, in mezzo alla campagna, vi si accedeva attraverso un passaggio a livello. Il muretto a secco che separava il prato dai binari era coperto di rovi che in autunno si riempivano di bacche scure: erano more dal gusto soave, era il sapore magico dell'età dell'innocenza. Al posto del muretto di pietre c'è oggi una palizzata di cemento, grigia e opaca: il colore della tristezza.
La strada un tempo era silenziosa, il canto delle cicale e dei grilli era interrotto ogni tanto dal fragore del treno che passava. Nelle giornate miti fuori delle case spuntavano sedie impagliate ed era il chiacchierio delle donne a coprire quel canto. Nel chiarore della luna, ascoltavo trepidando le storie che le donne raccontavano, in quei racconti i fantasmi avevano immagini sfumate, come le ombre sinistre tracciate dalle piccole lampadine che ondeggiavano aggrappate ad un filo sottile.
Un giorno sono arrivate le pale meccaniche, gru enormi furono piazzate ai due lati della strada, iniziarono per primo la costruzione del cavalcavia, subito dopo del sottopassaggio: erano gli anni cinquanta, le industrie fiorivano, la popolazione aumentava e con essa la fame di case e l'urgenza di un accesso agevole nelle nuove zone urbanizzate. Con la costruzione del cavalcavia, il traffico delle macchine si è riversato quasi tutto nella mia strada: le porte si sono chiuse.
Una volta dalla finestra della mia casa lo sguardo spaziava lontano, l'orizzonte non aveva confini, si espandeva e potevo vedere l'incanto dell'alba , il sole nascere da nuvole rosa, montagne e greggi immacolate al pascolo. Alti palazzi hanno ristretto il mio orizzonte ma il sole mentre sorge si fa spazio fra i tetti, i suoi raggi sono tentacoli che guizzando mi raggiungono.
La motosega che ha reciso gli alberi morti aveva un suono straziante, nelle aiuole del marciapiede sono rimasti gli spazi vuoti, è lo stesso vuoto che c'è in tutte le case: molti non ci sono più. Tanti alberi hanno scorze rugose e quando il vento soffia forte, il rumore delle fronde è come un lamento triste. Nuovi germogli si affacciano nella terra scura, è la vita che a fatica si rinnova. Oggi la via che conduce alla mia casa è nel cuore della città, le macchine sfrecciano veloci, passano e ripassano all'infinito, nell'andare incessante della vita.
Allegria e trepidazione sono i miei compagni di viaggio ma è nel ritorno che nascono pensieri che non sono nostalgia ma tenerezza. L'emozione ha il colore dell'erba rinata,è il mio respiro che scorre nell'umore degli alberi, è il sapore delle more nel cuore; è il canto del picchio sul ramo: è questo piccolo spazio di mondo dove c'è la mia strada, la mia casa, il focolare dove l'anima si scalda.