Se dovessi dire in quale città mi sento a casa mia, dovrei dire Parigi. Forse perché vi ho passato I più bei mesi della mia vita, quando avevo vent'anni e un bellissimo amore.
Parigi, la Senna, i boulevards, la rive gauche ,gli studenti che affollavano le strade e le terrazze dei caffè del quartiere latino, gli chansonniers, il Louvre e tanti altri importanti musei. Che cosa avrei potuto volere di più? Invece, nella città in cui sono nata, una piccola città della provincia veneta, con calli e canali simili a quelli di Venezia, con quartieri medievali che sono stati quasi completamente distrutti dalle bombe, in questa città non mi sono mai sentita a mio agio. Neppure quando ero ragazzina e giocavo a guardie e ladri nelle strette viuzze dove non passavano le macchine e sulle mura cinquecentesche costruite da fra' Giocondo per la difesa della città. Anche allora sognavo i grattacieli di New York che vedevo, nel cinema parrocchiale, nei film di Fred Astair e Ginger Roger.
Quando poi, diversi anni dopo, sono andata a New York, la grande Mela mi ha inghiottito . Subito sono entrata nel grande flusso di gente, dai visi di diversi colori dai vestiti più strampalati, che correvano lungo i marciapiedi di Manhattan per fermarsi solo un momento ai semafori che intimavano:"don't walk", per poi riprendere subito la corsa. Sono andata a vedere i musical, a vedere musei straordinari, sextions di Jazz, a passeggiare per Central Park, a incontrare il giovane Holden. Una città davvero coinvolgente.
Ma né a Parigi, né a New York potevo mettere radici. Le mie radici "naturali" rimanevano legate alla mia città.
Sennonché, crescendo, il desiderio di lasciarla diventava sempre più forte. Le tragiche esperienze vissute sulla mia pelle " , e non solo sulla mia, la seconda guerra mondiale, il fascismo,l'occupazione tedesca, la guerra partigiana avevano radicalmente cambiato il mio sistema di valori.
Era ovvio, per me e per i miei giovani amici, che la fine della guerra avrebbe dovuto comportare un rinnovamento totale, il nascere di una società , con progetti e finalità completamente diversi dal passato. In realtà, qualcosa di nuovo stava nascendo nel paese: il cinema neorealistico, una nuova letteratura intorno alla casa editrice Einaudi, la cosidetta letteratura impegnata, i movimenti politici e sociali.
Così, a vent'anni mi sono sentita stretta in quella piccola città di provincia, che, malgrado fosse stata molto attiva durante la guerra partigiana, in seguito si era dimostrata attaccata al passato e alle tradizioni, prigioniera del culto del guadagno e dei valori religiosi più conservatori.
Me ne sono andata come se ne sono andati molti miei amici, che cercavano nelle grandi città il diverso, il nuovo, qualcosa per cui sentirsi come a casa propria. Chi é andato a Milano, chi all'estero. Io sono venuta a Roma, allora non solo capitale politica, ma anche culturale. Certo il mio incontro con la grande città . più che ad un abbraccio è stato piuttosto simile ad uno scontro.
Devo confessare che nei primi tempi e non solo, la vita a Roma mi ha procurato una serie di choc Bene o male, dal Veneto mi portavo dietro una cultura, seppur tutta formale, fatta di "scusi, grazie, prego" Le parole che ricorrevano più spesso negli autobus e nelle trattorie romane che frequentavo perché non avevo una casa mia, erano suppergiù::" ma va…, ma chi te conosce, embé " ed altre espressioni gergali più colorite. La violenza era il modo usato dai romani di esprimersi, con la voce e col corpo. Non parlavano, gridavano.
All'inizio ne fui scandalizzata Negli anni '50, prima del boom economico, Roma era ancora una città provinciale, folkloristica, vivace, ma non una città europea. Mi ricordo l'importanza che aveva allora la famiglia. Nelle trattorie, molto spesso, si incontravano intere famiglie che nelle ceste si portavano il pranzo e all'oste pagavano solo il vino. Questa Roma mi incuriosiva e mi divertiva, ma non la sentivo come la città in cui potevo mettere radici.
Per un periodo di tempo, mi sono sentita, come dicono I francesi, una "derasineè" Solo più tardi il lavoro mi ha avvicinato alla città. Il lavoro e l'impegno politico. Per tanti anni ho insegnato a ragazzi di sedici e diciotto anni, ignoranti. ma curiosi, che parlavano romanaccio , che non conoscevano l'italiano, che dicevano parolacce Così, per farmi accettare, qualche parolaccia ho cominciato a dirla anch'io.
Così, pano piano, io e i miei studenti ci siamo avvicinati e capiti. Ho capito che non solo io ero scappata a Roma, ma anche molti dei genitori dei miei studenti, anche se per motivi diversi. Venivano dal sud, dal nord, dal centro e Roma li assimilava.
Poi sono arrivati gli altri: i magrebini, gli arabi, gli indiani, gli europei dell'est e siamo diventati una società multietnica. E più questa società si allargava, più difficile era comunicare per la varietà delle lingue ( io parlavo francese con gli arabi e con i magrebini, un fallosissimo inglese con gli altri) e più mi sentivo a casa mia. Così, alla fine, ho trovato la città in cui mi piace vivere e ho capito che solo il lavoro e l'impegno ti possono far sentire come a casa tua.