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Townstories

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Roma, Il dopoguerra - Piazza Vittorio

di Franco Boncristiani


Roma era in pieno caos postbellico. I bombardieri avevano pressoché distrutto i quartieri popolari di San Lorenzo e del Prenestino, e si erano accaniti lungo tutti i percorsi ferroviari e sopra le zone industriali. Passai per la prima volta da solo (ormai mi sentivo grande) il temibile confine delle mura tiburtine (anch'esse devastate in più punti) e mi trovai davanti uno scenario apocalittico: gli scheletri dei palazzi bombardati tendevano al cielo dita scrostate di mura e di tubi, sulle pareti delle camere impudicamente aperte alla vista di tutti restavano i segni in negativo di mobili scomparsi, macerie e relitti di ogni genere ingombravano le strade, un tanfo ammorbava l'aria. Alcune delle bombe sganciate dagli anglo-americani nei quasi tre mesi che ci vollero per convincere il governo e il re a dichiarare quell'armistizio che avevano già firmato in segreto erano finite anche vicino al centro della città, dove nessuno non avrebbe mai pensato che potessero arrivare grazie alla presenza del Papa e del Re. Era stato un ulteriore choc, e migliaia di persone avevano rinunciato da allora a scegliere come ricovero la galleria di Via Milano sotto il Quirinale.
All'Esquilino, se si escludono gli edifici di testa della Stazione Termini, non si erano subiti gravi danni. Bombe "distratte" avevano colpito qua e la lungo la ferrovia (una proprio davanti a casa mia), distruggendo un'ala della Regia Zecca, danneggiando le caserme e disfacendo qualche palazzo sfortunato, e questi vuoti isolati apertisi inaspettatamente nel compatto tessuto ottocentesco del quartiere sembravano ancora più stupefacenti.

Dopo i danni materiali sarebbero presto comparsi quelli sociali: migliaia di famiglie erano rimaste senza casa, e ad esse si aggiungevano quelle che arrivavano a Roma da gran parte del Paese devastato in cerca di una sistemazione. La guerra era finita, ma non c'era più lavoro per nessuno, e in tutti, una volta caduta per sempre la dittatura, era insorta una voglia rabbiosa di ricevere riparazioni: per gli anni di oppressione, per i figli i padri i parenti spariti nel vortice della guerra, per le case perdute, per le pene patite, per l'onore offeso, per il futuro rubato. Ma c'era di peggio: ogni senso morale era caduto, e con esso ogni senso della misura e del decoro. In casa si parlava a bassa voce di madri o di sorelle di alcuni dei miei amici, i cui uomini erano ancora tenuti lontano da casa dal caos dei rimpatri o dalla prigionia, che ospitavano sfacciatamente in casa militari americani e si mostravano fiere di esibire tutta la dovizia di cibi, di stoffe, di "vita" che quelle preziose amicizie consentivano loro. Sembrava che la paura della morte, una volta dissolta, avesse lasciato nell'anima di molti dei miei concittadini una voglia sfrenata di vivere la vita selvaggiamente, senza inibizioni e senza lasciarsi condizionare in alcun modo dalle convenzioni sociali. E ognuno di loro viveva questa nuova condizione a suo modo, a seconda delle attitudini o delle sue capacità: nella prostituzione, nel furto, nella prepotenza o nel raggiro tanto ingegnoso quanto crudele a danno dei più deboli.

Piazza Vittorio era diventata ben presto il centro di questa nuova filosofia: "signorine" truccatissime sostavano sotto i portici brevissimamente, pronte a salire al braccio di militari di ogni colore quelle scale per me tanto misteriose. L'immensa piazza e tutte le vie dei dintorni si erano trasformate in un grande ristorante all'aperto: i generi alimentari, nonostante le tessere annonarie, erano diventati ancora più rari, ma nell'area di questa specie di bazar si trovava di tutto, e in abbondanza. Enormi fuochi cuocevano ininterrottamente quintali di spaghetti e pentoloni di sugo di pomodoro, e piatti fumanti erano serviti alla folla di avventori che, convenuti da tutta la città e dai dintorni, mangiavano in piedi saziando una fame ormai cronica. Ricordo che nelle vie adiacenti alla piazza l'acqua di cottura della pasta, scolata per giorni e giorni sul marciapiede e sul piano stradale, aveva formato una crosta consistente, dura e scivolosa, sulla quale spesso la gente cadeva facendosi male. Si friggeva di tutto, e i fumi ammorbavano l'aria. Vi si vendeva di tutto, come una specie di Porta Portese ante-litteram: montagne di cicche di sigarette, preservativi usati, bossoli di tutte le dimensioni dalla pistola al cannone, indumenti e altre attrezzature militari, oggetti rubati chissà dove. E nei negozi un tempo superbi si svolgevano traffici innominabili. Di tanto in tanto una pattuglia di militari americani, assistiti da una raccogliticcia polizia italiana rivestita di improbabili divise, faceva un'incursione nella piazza, dalla quale si alzava immediatamente il grido "piove!". Allora chi poteva si allontanava con la sua mercanzia. Ma presto la folla dei venditori si faceva sotto ai militari senza alcuna paura, e quelli dovevano battere in ritirata. E prima che si facessero rivedere sarebbe passato un bel po' di tempo.

Al passaggio obbligato del tunnel sotto la ferrovia, a Santa Bibiana, sfilavano in continuazione convogli militari alleati carichi di ogni ben di dio. Questa era terra di conquista per alcune bande di ragazzini che con abilità portentosa si arrampicavano sui cassoni dei camion in corsa e ne scaricavano, a beneficio del resto della banda che li seguiva da terra, tutto ciò che trovavano. Il più abile e il più affascinante di questi piccoli Gavroche, che non avevano né casa né famiglia e conoscevano solo ricettatori, era "er Zelletta" ("il piccolo sudiciume", in romanesco). Aveva un'agilità scimmiesca, e un coraggio che gli permetteva di infilarsi tra i camion di una colonna in marcia, e fare i suoi scarichi così velocemente da non dare il tempo ai militari del camion che seguiva di fare alcunché di utile per evitare il furto. Una volta scaricò dal cassone un militare di colore che stava dormendo avvolto in una coperta. Tutto il quartiere ne rise per giorni.

Sui muri di alcune zone della città erano comparsi avvisi in inglese e in francese (per quanto l'armata del generale Leclerc, che era composta principalmente da marocchini, fosse stata prudentemente alloggiata lontano dalla città. Per rispetto del Papa, si disse; ma il popolo era ben al corrente degli abusi sessuali che questi soldati avevano compiuto in Ciociaria. Da allora, nell'immaginario collettivo dei romani, il termine "marocchino" rimase per sempre associato a quegli stupri, o all'esagerata dimensione dell'apposito strumento. Il romanzo "La ciociara" di Moravia ha consegnato alla letteratura universale un affresco di quei mesi, avvisi che intimavano ai militari di astenersi dal frequentare quella zona. La cosa che più mi seduceva era il colore e la foggia delle bandierine (molte, quanti erano gli occupanti) dipinte sui cartelli. Non so quanto fossero efficaci: verso Porta Tiburtina, tra gli anfratti creati dalle cataste di lastre di travertino pronte a essere impiegate per il rivestimento degli edifici della stazione Termini ma rimaste inutilizzate a causa della guerra, attempate veneri dalle facce stanche imbellettate soddisfacevano le voglie di centinaia di militari di ogni nazionalità, tra la curiosità un po' impacciata di noi ragazzi che li spiavamo da lontano. Fu in quei giorni che si creò il mito delle "Terme di Caracalla", il più grande e il più frequentato di questi mercati del sesso; il mito (e, per la verità anche il mercato!) è rimasto vivo fino ad anni abbastanza recenti e talvolta riaffiora nella volgarità di alcune invettive o degli scherzi grossolani.

Franco Boncristiani