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Townstories

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Pian piano la situazione si avviò verso una certa normalizzazione, o almeno una parvenza di quella. Con la fine della guerra il governo dei Comitati Nazionali di Liberazione aveva ceduto il potere ad un governo di coalizione, che aveva attuato un programma di lavori (il famoso "Genio Civile") che sembravano spesso inutili, ma che consentivano ad un numero sempre crescente di disoccupati di reinserirsi nella vita attiva del Paese; c'erano i primi timidi accenni di ricostruzione, e una quantità sempre maggiore di generi alimentari arrivava ora, oltre che agli spacciatori della borsa nera, anche nei mercati e nei negozi. Una polizia più attrezzata e più motivata ebbe lentamente ragione dell'anarchia imperante, mentre la ribellione morale dei cittadini si incanalava ormai verso la lotta politica finalmente ritornata alla luce del sole, e che avrebbe portato alle prime elezioni dopo la dittatura e al referendum tra monarchia e repubblica. Riaprivano le scuole, nelle poche aule ancora agibili. La mia classe era in un palazzo di Piazza Dante, dove evidentemente erano stati affittati dal Provveditore agli Studi degli appartamenti al quarto piano. Ci avevano dato un sussidiario poverissimo, di carta di pessima qualità, ma il maestro (che come tutti gli uomini di quel tempo aveva un'aria allucinata e sofferente, con le gambe magre che nuotavano nei vecchi pantaloni troppo larghi) era un uomo straordinario, e sopperiva a tutte le necessità didattiche nel migliore dei modi. I miei compagni di classe erano l'immagine dell'Italia di quei tempi: c'erano azzimati figli di buoni borghesi con un po' di puzza sotto il naso, c'erano arroganti figli degli arricchiti della borsa nera, ma c'erano soprattutto ragazzi poverissimi, vestiti con vecchi indumenti militari riadattati e calzati alla meno peggio, che sembravano piovuti li da un altro pianeta (e forse , in qualche modo, era proprio così!).

La mia aula aveva un grosso buco nel soffitto (un danno di guerra minore, evidentemente) e quando il maestro mi interrogava ci tenevo a far bella figura: immaginavo, chissà perché, che dal quel buco mi osservasse, e fosse orgogliosa delle mie risposte, una ragazzina di nome Luana, di cui mi ero perdutamente innamorato. Con Luana frequentavo una scuola di musica in Via Emanuele Filiberto, a pochi metri dalla piazza . Mio padre intendeva fermamente risarcirmi di tutti quegli anni passati lontano, e mi aveva affidato a quella grassa e bionda (e molto brava) signora che mi avrebbe fatto diventare, di li a poco, un vero virtuoso della fisarmonica, uno strumento che allora andava molto di moda. Dalla grassa signora studiavamo a decine, di tutte le età, e Luana era assai più grande di me. Ma, come tutti sanno, l'amore non conosce ostacoli! Peccato che non abbia mai trovato il coraggio di dirglielo. Dal folto gruppo dei suoi allievi la signora ne sceglieva alcuni, di tutte le età, con i quali componeva un'orchestra di sole fisarmoniche. Con questa orchestra, il cui repertorio soprattutto di musica classica era assai pregevole, giravamo per tutti i teatri e i ritrovi del Lazio, dando spettacoli assai applauditi. Ricordo di aver suonato alla Radio (che andava faticosamente rimettendo in piedi le sue strutture), al Teatro Adriano, ma soprattutto - quasi quotidianamente - al circolo ufficiali delle Forze Armate americane, al Foro Italico, dove oltre a suonare mettevamo in scena semplici spettacolini di varietà teatrale che avevano grande successo tra quegli ingenui ragazzoni. Alla fine venivamo sommersi, oltre che dagli applausi, da montagne di quelle loro tipiche ciambelle alla vaniglia e da bicchieroni di gelato dei quali non ci saziavamo mai. Il mal di pancia finale era garantito.

Avevano riaperto i cinema del quartiere. All'inizio non erano stati in grado di proiettare dei veri film, e se la cavavano con spezzoni di vecchie comiche montati a caso. Ricordo di aver rischiato di morire dal ridere sulle dure poltrone di legno mezzo sconquassate del cinema Esquilino che era in Via dello Statuto o su quelle del Cinema Roma, sotto i portici, per le comiche di Ridolini, di Max Sennet, di altri buffi protagonisti di avventure che si svolgevano immancabilmente su binari di tram che deviavano il loro percorso proprio all'ultimo momento, o tra secchi di pece rovesciati sulla testa di barbuti banditi dall'aria goffamente truce. Questi cinema di infimo ordine venivano chiamati, a Roma, "Pidocchietti". Non servono spiegazioni: "nomen omen"! Poi arrivò la valanga dei film americani, soprattutto di guerra (in questo genere fecero la loro apparizione, ma solo per pochi mesi, anche film russi. Poi scomparvero), e il cinema diventò un fenomeno sociale di massa. Code e risse caratterizzavano l'ingresso dei nuovi cinema aperti all'Esquilino come altrove. Sul palcoscenico del glorioso Teatro Jovinelli, davanti alla Centrale del Latte, che non aveva mai smesso le programmazioni nemmeno sotto i bombardamenti, si esibivano talenti vecchi e nuovi, ma erano soprattutto le ballerine che sgambettavano seminude spargendo in sala odori di ciprie e di belletti che richiamavano folle di appassionati. Noi ragazzetti uscivamo dagli spettacoli alquanto turbati, e poi ci schieravamo sotto il muraglione della ferrovia dal quale si potevano spiare (si vedeva ben poco, purtroppo) le finestre dei camerini nei quali si supponeva che quelle belle figliole si spogliassero e si cambiassero il costume. Eh si, crescevamo in fretta, e ce ne accorgevamo anche dall'attenzione che ci prestavano, nel teatro, individui dallo sguardo equivoco che ci lanciavano segnali inequivocabili.

La grande piazza tornava alla normalità. Come altrove nella città, era scomparso tutto ciò che era metallico: cancellate, balaustre, griglie, tutto era stato fuso e inghiottito nella fornace della guerra. Molti alberi erano scomparsi, le vasche erano vuote e i ponticelli fatiscenti, e in quelli che erano stati giardini lussureggianti si aggirava una umanità stranita fatta di reduci, sfollati, spostati. Ma c'era ancora il grande mercato, e sotto i portici erano ricominciate le attività di sempre, con qualche novità: ai caffè dall'aspetto dignitoso se non severo si erano sostituite sgargianti pizzerie e rosticcerie e al posto dei "pidocchietti" che avevano definitivamente chiuso i battenti si vedevano ora grandi empori di alimentari, quasi che la febbre gastronomica dell'immediato dopoguerra avesse trovato sotto gli stessi portici un modo di inverarsi adeguato ai nuovi tempi.

Franco Buoncristiani