Anche il resto del viaggio fu avventuroso: dormivamo nei ruderi di case bombardate, mangiavamo quel che si trovava, mille inconvenienti ci costringevano ad allungare il percorso attraverso campagne disseminate di mezzi militari bruciati, di carcasse di aerei, di nastri di mitragliere abbandonati. Il quarto giorno, verso Civitavecchia, degli americani che portavano verso Roma un carico di fusti di benzina ebbero pietà di noi, e caricarono i bambini (ma solo loro) per portarci a destinazione. Così, stremato e puzzolente di benzina, ritornai nella mia città natale.
Roma era in pieno caos postbellico. I bombardieri avevano pressoché distrutto i quartieri popolari di San Lorenzo e del Prenestino, e si erano accaniti lungo tutti i percorsi ferroviari e sopra le zone industriali. Passai per la prima volta da solo (ormai mi sentivo grande ) il temibile confine delle mura tiburtine (anch'esse devastate in più punti) e mi trovai davanti uno scenario apocalittico: gli scheletri dei palazzi bombardati tendevano al cielo dita scrostate di mura e di tubi, sulle pareti delle camere impudicamente aperte alla vista di tutti restavano i segni in negativo di mobili scomparsi, macerie e relitti di ogni genere ingombravano le strade, un tanfo ammorbava l'aria. Alcune delle bombe sganciate dagli anglo-americani nei quasi tre mesi che ci vollero per convincere il governo e il re a dichiarare quell'armistizio che avevano già firmato in segreto erano finite anche vicino al centro della città, dove nessuno avrebbe mai pensato che potessero arrivare grazie alla presenza del Papa e del Re. Era stato un ulteriore choc, e migliaia di persone avevano rinunciato da allora a scegliere come ricovero la galleria di Via Milano sotto il Quirinale. All'Esquilino, se si escludono gli edifici di testa della Stazione Termini, non si erano subiti gravi danni. Bombe "distratte" avevano colpito qua e la lungo la ferrovia (una proprio davanti a casa mia), distruggendo un'ala della Regia Zecca, danneggiando le caserme e disfacendo qualche palazzo sfortunato, e questi vuoti isolati apertisi inaspettatamente nel compatto tessuto ottocentesco del quartiere sembravano ancora più stupefacenti.
Dopo i danni materiali sarebbero presto comparsi quelli sociali: migliaia di famiglie erano rimaste senza casa, e ad esse si aggiungevano quelle che arrivavano a Roma da gran parte del Paese devastato in cerca di una sistemazione. La guerra era finita, ma non c'era più lavoro per nessuno, e in tutti, una volta caduta per sempre la dittatura, era insorta una voglia rabbiosa di ricevere riparazioni: per gli anni di oppressione, per i figli i padri i parenti spariti nel vortice della guerra, per le case perdute, per le pene patite, per l'onore offeso, per il futuro rubato. Ma c'era di peggio: ogni senso morale era caduto, e con esso ogni senso della misura e del decoro. In casa si parlava a bassa voce di madri o di sorelle di alcuni dei miei amici, i cui uomini erano ancora tenuti lontano da casa dal caos dei rimpatri o dalla prigionia, che ospitavano sfacciatamente in casa militari americani e si mostravano fiere di esibire tutta la dovizia di cibi, di stoffe, di "vita" che quelle preziose amicizie consentivano loro. Sembrava che la paura della morte, una volta dissolta, avesse lasciato nell'anima di molti dei miei concittadini una voglia sfrenata di vivere la vita selvaggiamente, senza inibizioni e senza lasciarsi condizionare in alcun modo dalle convenzioni sociali. E ognuno di loro viveva questa nuova condizione a suo modo, a seconda delle attitudini o delle sue capacità: nella prostituzione, nel furto, nella prepotenza o nel raggiro tanto ingegnoso quanto crudele a danno dei più deboli.