"…questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo
alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio…"
P.P. Pasolini, "Le ceneri di Gramsci"
Vivo in un quartiere moderno, pieno di vita, di negozi, di rumori. La mia casa è sul Lungotevere e anche se dalla mia finestra non la vedo so che sull'altra riva del fiume la facciata di San Paolo fuori le mura espone i suoi mosaici dorati al sole del tramonto. Malgrado ci viva da più di trent'anni e qui siano accaduti quasi tutti i casi più significativi della mia vita (la nascita dei miei figli, soprattutto), devo confessare che quello tra me e il quartiere in cui vivo è un amore difficile. Sono venuto ad abitarvi quando ho messo su famiglia, come si dice, ed ero elettrizzato dalla prospettiva di costruirmi una vita nuova e diversa. Mi piaceva la solitudine delle sue strade dall'asfalto quasi vergine, dei marciapiedi bordati dalla linea bianca e netta dei travertini, l'aria di frontiera che il quartiere ancora in costruzione assumeva di sera, quando gli operai lasciando i cantieri sparivano verso "la città" e i ranocchi, ancora annidati nelle profonde depressioni acquitrinose che si aprivano ai bordi delle vie appena tracciate, intonavano lunghi concerti.
Venivo da un quartiere anch'esso popolare, ma inserito nel corpo antico della città. Ero scontento di me e della mia vita, e lasciando la casa dei miei genitori distrussi, quasi per segnare fisicamente una cesura tra me e quel passato che non mi piaceva, una quantità di documenti di ogni genere: vecchi libri, quaderni di scuola, spartiti musicali, cravatte e maglioni, pagelle scolastiche, lettere e cartoline, persino le foto su cui riuscii a mettere le mani. Ero pervaso da una specie di furia iconoclastica, mi sembrava che distruggere tutto ciò che documentava il mio passato costituisse una garanzia contro il suo ritorno.
Non mi bastano le parole per spiegare quanto poi mi sia pentito di quella furia infantile. Quando decido di spendere le mattinate domenicali esplorando il vicino mercato di Porta Portese, ogni volta che su una delle tante bancarelle vedo esposti documenti come quelli che io ho così incautamente distrutto sono assalito dal rimpianto e da una rabbia impotente.
Ora il paesaggio è totalmente diverso. Palazzine sobrie, quasi eleganti, si adagiano lungo il fiume, al posto dei canneti e delle brughiere. Dove fino a pochi decenni fa industrie e depositi svolgevano la loro attività intorno a quello che era il Porto Fluviale di Roma, le cui vecchie strutture si sporgono ancora, ormai inutili, sulle banchine e sull'acqua, ora sorgono palazzoni popolari e si vanno installando strutture modernissime che ospitano supermercati, multisale e altri ritrovi assai apprezzati soprattutto dai giovani. Il cuore del quartiere, il riferimento obbligato, è un grande viale, percorso da numerosi mezzi pubblici, scintillante di negozi (soprattutto di abbigliamento), di grandi magazzini come ce ne sono - tutti uguali - ormai in tutto il mondo, percorso (quasi sempre lentamente) da un traffico congestionato, coi marciapiedi sui quali si accalca una folla di gente di ogni età che sembra sempre alla ricerca disperata di qualcosa che non riesce a trovare. Intorno al grande viale, alla grande Babilonia tentatrice, palazzi anonimi e strade strette, dai marciapiedi ormai logori e sformati, con negozi di parrucchiere o di alimentari, qualche artigiano, qualche chiesa in pretenzioso stile moderno, ma soprattutto una quantità spropositata di caffè, dove si ritrovano soprattutto i maschi del quartiere impegnati in discussioni infinite sulle vicende del calcio. Dappertutto automobili parcheggiate caoticamente, dappertutto escrementi di cane.
La casa dove vivo è una casa come tante, con qualche modesto segno di gusto personale che ho tentato di imprimerle per provare a riscattarla dall'anonimato più deprimente. Chi fosse, come me, innamorato dei libri e della musica vi si potrebbe trovare a suo agio. Ciò che mi fa sorridere è il fatto che il posto dove essa sorge è lo stesso dove mio padre mi portava con se quando andava a pescare sul fiume. Dal Tevere sorgevano i piloni (ma solo i piloni) di quello che adesso è Ponte Marconi. Io mi annoiavo a morte e passavo il tempo ad inseguire tra le canne e le stente vigne innocenti lucertole o ad ascoltare, lontano a monte del fiume, i macchinari delle officine del gas e della centrale elettrica che caricavano carbone nelle rispettive fornaci.
Mi piace molto camminare, e mi capita spesso di visitare, munito di una guida, monumenti e musei della mia città, proprio come un turista. Uno di quelli nei quali mi reco più spesso, anche perché si trova vicino al quartiere in cui abito, è il museo recentemente aperto nell'ex centrale elettrica Montemartini, sulla Via Ostiense. Nei grandi locali che ospitano ancora gli immensi generatori sono state sistemate sculture preziosissime e altri oggetti dell'antichità romana che coprono un'epoca che va dalla repubblica al tardo impero, e il contrasto tra le grandi macchine ancora odorose di lubrificanti e la bellezza delle opere esposte aggiunge un fascino inconsueto alla esposizione.
Mi piace soprattutto camminare nei boschi, e, d'inverno, specialmente sulla riva del mare. Mi ritengo, tutto sommato, fortunato, perché posso farlo quando voglio: ho il tempo necessario, e possiedo altre due case, due rifugi dove scappare quando la città mi opprime, entrambe poste in luoghi per motivi diversi suggestivi. Una sul mare, in Toscana. L'altra in Abruzzo, nei luoghi che nel XIII secolo videro la sconfitta dell'ultimo degli Hohenstaufen, Corradino, ad opera di Carlo d'Anjou chiamato dal Papa, evento questo che avrebbe impedito per secoli all'Italia di diventare uno stato unitario.
Sul luogo nel quale vivo credo di aver detto abbastanza. Vorrei ora parlarvi un po' del luogo dove ho speso gran parte della mia infanzia: il quartiere Esquilino.