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Townstories

Stand:


L'Esquilino

di Franco Boncristiani


"Nunc licet Esquilkiis habitare salubris atque
aggere in apricum spatiari…"
Orazio, Saturae, VIII

Sono nato in un quartiere di Roma dal nome suggestivo: Esquilino (dal latino ex-quilinus, il perfetto contrario di inquilinus!). Desidero perciò, prima di ogni altra cosa, parlare di questo luogo.

A chi guardi, pur - come me - senza essere un esperto, una planimetria dell'area di Roma antica, appare subito chiaro che la maggior parte degli antichi sette colli attorniava la valletta nella quale sorse il Colosseo (che in origine era occupata da un laghetto il cui immissario ancora scorre in profondità nei sotterranei della chiesa di San Clemente), e la depressione sulla quale sorsero i Fori. Tra le modeste altitudini che sorgono a Nordest di questi luoghi, e che oggi appaiono ovunque dense di costruzioni (molte delle quali autentiche meraviglie!) e quasi appiattite dall'incessante opera dell'uomo, diverse strade, che in genere occupano il letto di antichissimi torrenti, portano ad un vasto pianoro movimentato da gobbe, da sempre chiamato Esquilino. Terra di sinistre suggestioni fin dagli albori della storia: forse nelle sue forre boscose di querce e faggi (ancora oggi ricordate da toponimi) e nelle valli umide ove dovevano crescere rigogliosi i vimini (Viminalis) si affrontarono, per contendersi legna e pascoli, i Sabini, gli Etruschi, e quei pastori latini che, arroccati su Palatino e Campidoglio, finirono per legarsi a quei popoli per formare, con i Greci che trafficavano al guado del Tevere, il primo melting-pot dal quale sarebbe poi nata la grande Roma. La quale, già in epoca antichissima, chiuse quel pianoro entro una muraglia i cui avanzi sono ancora oggi visibili sul piazzale della Stazione Termini e altrove. Per motivi che non sono chiari quei luoghi finirono per essere destinati ad usi cimiteriali, e diventarono sede di esecuzioni capitali, punto di incontro per praticanti di culti clandestini, terra di meretrici, di "irregolari" dediti a pratiche proibite dalle leggi, tra le quali soprattutto la divinazione. I cadaveri dei poveri e dei reietti vi venivano sepolti in fosse comuni insieme a quelli degli animali, e secondo testimoni del tempo i cani vi si aggiravano portando in bocca omeri e tibie, e di notte tutto vi era lugubre e terrificante.

Proprio in questo posto allora così poco attraente, più di venti secoli più tardi l'Italia da poco riunificata edificò una grande piazza dedicandola al buffo Re che aveva tenacemente perseguito l'unità del Paese, mettendo in gioco i destini della sua dinastia nel conflitto con il potere temporale della Chiesa e con le potenze allora egemoni. Questa piazza si chiamò Piazza Vittorio Emanuele II, ma i romani la chiamarono subito Piazza Vittorio, così, tutto d'un fiato. Vastissima, contornata da portici maestosi sui quali si ergono palazzi severi costruiti per la buona borghesia di fine ottocento (oggi, in verità, è difficile stabilire se siano più malridotti i palazzi o coloro che lì abitano…), aveva al centro un grande giardino ricco di palme ed altre rare essenze e allietato da vasche le cui acque, popolate dagli immancabili pesci rossi e sormontate da leziosi ponticelli, davano al visitatore uno straordinario senso di frescura; essa si presentava con un indubbio valore scenico, anche perché il giardino era contornato da un grande e pittoresco mercato, i cui suoni, odori e colori arricchivano l'impressione di bellezza e di vivacità. Ma c'era dell'altro: tra le robinie e i cedri del Libano si trovavano, e si trovano tuttora, dei ruderi poco leggibili e poco visitati, che tuttavia qualche suggestione, se si usa un poco l'occhio del cuore", possono ancora regalarla. Si tratta dei resti del Castello dell'Acqua Giulia (edificio detto popolarmente "Trofei di Mario" per le opere in marmo che lo rivestivano e che nel XVI secolo furono trasportate sulla balaustra del Campidoglio), forse la fontana monumentale di una villa romana risalente all'età di Domiziano.

Già, perché di quel luogo lugubre di streghe e di morte gli imperatori fecero più tardi una terra di delizie, sulla quale i maggiorenti romani edificarono ville principesche, tra le quali abitarono anche i loro giullari (Virgilio, Orazio, Properzio, etc.). Ma qualcosa di sinistro doveva continuare ad aleggiare su quei pianori, e non solo per lo storico incendio che, regnando Nerone, li ridusse a cenere: per tutto il medioevo il Campo Esquilino, ormai disabitato perché l'acqua non vi arrivava più essendo stati tagliati gli acquedotti che lo attraversavano, fu meta di fattucchiere e negromanti, che si aggiravano tra i ruderi imponenti di Terme e Palazzi per raccogliere erbe malefiche o si calavano negli antri interrati di quella che era stata la Domus Aurea per compiervi riti oscuri. Una traccia sicura del perpetuarsi di queste tradizioni addirittura fin oltre il Rinascimento è testimoniata proprio dal Castello dell'Acqua Giulia in Piazza Vittorio, sul quale è murata la cosiddetta "Porta Magica", ricca di simboli esoterici e di sentenze alchemiche e fiancheggiata da due statue marmoree nude e mostruose. Sono i resti di un'antica villa distrutta a fine '800 per far posto alla piazza e alle vie adiacenti. E, come vedremo più avanti, Piazza Vittorio e l'Esquilino conservano tuttora qualcosa del carattere magico ed esotico che ne ha segnato la storia, e che li fanno diversi dal resto della città.

Franco Boncristiani